Testi critici - Carloromagnolo

Vai ai contenuti

Menu principale:

 

Porti delle nebbie
Coinvolgimento autobiografico e fierezza
della pittura di Carlo Romagnolo
di Carlo Fabrizio Carli

La città costituisce il contesto privilegiato della pittura di Carlo Romagnolo. E’ difatti la città – intendo qui la grande città – a porsi come quotidiano scenario su cui si svolge l’esistenza di gran parte dell’umanità contemporanea, cosicché risulta del tutto naturale che molti dei pittori d’immagine, in particolare giovani, ne facciano il tema di elezione delle loro opere.
Romagnolo, tuttavia, affronta questo argomento con accenti molto personali. All’artista piemontese non interessa la città storica, a seconda dei casi aulica o pittoresca, dove varie civiltà e culture sono andate stratificando le loro tracce.
E neppure sono nelle sue corde le architetture novecentesche che ambientano atmosfere silenziose e sospese, quasi si trovassero in attesa di un qualche avvenimento, presentito e forse temuto, che stia per accadere; atmosfere che è ormai invalso definire metafisiche. Come pure ad intrigarne l’immaginario non è davvero la città high-tech, esatta e fredda come un congegno meccanico, con i grattacieli trasformati in altrettanti simboli di potenza economica, che esibiscono pareti di cristallo specchiante e torri di acciaio, coronate da antenne e parabole.
Al contrario, Romagnolo predilige la città ordinaria, alle prese con la sua esistenza prosaica e faticosa di tutti i giorni. E, assieme a quello metropolitano, ama il tema della strada, degli svincoli, dei piazzali di sosta, delle soprelevate, inquadrati in particolare nelle ore notturne, con tanto di tracce e scorie della vita che su di esse va consumandosi: vecchie lattine schiacciate, foto di giornali pornografici, profilattici. [...]
Ma soprattutto a Romagnolo sta a cuore la città portuale: le navi ormeggiate e in manovra, la vita brulicante delle banchine e dei docks; l’andare e venire degli autocarri, le manovre delle gru, le cataste ordinate e spettrali dei containers, le scolature di nafta e di ruggine.
D’altro canto, per il nostro artista, piemontese del Monferrato, dire porto significa pensare a Genova. Sarà forse per ragioni storiche, o per la suggestione indotta dalle parole di una canzone famosa di Paolo Conte, che in Romagnolo deve suscitare un’adesione quasi autobiografica: “Genova per noi che stiamo in fondo alla campagna…” (e a cercare un’altra affinità musicale per i quadri di Romagnolo, occorrerà citare le canzoni di Vinicio Capossela, borbottate a voce bassa e arrochita, ad evocare personaggi ai margini sociali e ambientazioni da night club).
Certo agisce qui il perenne fascino del mare e del porto; il fascino della partenza, dell’evasione, del viaggio e del ritorno, che dà senso ad ogni partenza e a ogni viaggio.
Non si tratta di parole di circostanza: la pittura di Romagnolo sa caricarsi di un sapore fortemente romantico nelle sue accese valenze espressionistiche: si vedano, ad esempio, opere come Bidone e vecchi bancali, Bidone su piattaforma oppure Porto Petroli, tele incendiate cromaticamente dalle macchie rosso fuoco dei barili di nafta o dalla sagoma arancio-rugginosa della petroliera attraccata.
La sua è una pittura forte, gestuale, materica: questa insopprimibile carica espressionistica si impone altrettanto nei marcati contrasti chiaroscurali prescelti dal pittore, oppure nell’impiego di inquadrature diagonali e fortemente dinamicizzate (Binari, Globe Trotter), grazie anche all’espediente di moltiplicare i punti di fuga.
L’adozione di una pasta cromatica grumosa e materica, induce anche a scorgervi l’eredità della lezione dell’Informale, in particolare nell’accezione arcangeliana, vale a dire estranea nell’intimo alle istanze astrattiste e comunque legata ad una pur problematica fedeltà al vero di natura.
E' dunque pienamente coerente l’affermazione del pittore che individua i propri referenti privilegiati, dal punto di vista storico, nei grandi nomi di un Turner e di un Van Gogh. A questo proposito, occorre dire che non si tratta di un omaggio banalmente rituale, come avviene spesso relativamente a questi colossi della pittura, ma realmente avvertito e indirizzato da Romagnolo ad istanze espressive proprie dell’attualità. Mentre, nell’ambito contemporaneo, è negli esponenti più matericamente coinvolti dell’Officina Milanese: un Frangi, un Velasco, che egli si riconosce. Anzi, proprio quest’ultimo può essere inteso come un referente di particolare significato per il nostro artista, con la differenza che Velasco ama ormai dipingere soprattutto la luce e le atmosfere solari di un sud tutto mediterraneo, mentre Romagnolo predilige i climi nebbiosi e un po’ cupi delle ambientazioni cisalpine, che tuttavia il nostro artista trova molto vitali e stimolanti.
In effetti la luce, in particolare la luce notturna dei fanali stradali o dei fari dei Tir assume una importanza fondamentale nella pittura di Romagnolo: luce di barbagli e di accensioni perentorie, che si frantuma in grumi di colore. Dipinti come Tir all’imbarco, Cantiere di notte, Rimessaggio notturno, Colonna di containers, risultano a tale riguardo davvero esemplari.
Verrebbe insomma spontaneo affermare che quella di Romagnolo sia una scelta di sapore testoriano: in questa mostra, che propone una ventina di tele, tutte realizzate nel corso del 2005, non ci si imbatterà infatti in ammiccamenti ironici o in giochi intellettuali: e questo, visto quanto propone attualmente il sistema dell’arte contemporanea, è già di per sé una circostanza degna di nota. Piuttosto si toccherà con mano un realismo viscerale e tormentato, assai attento alle impronte del vissuto esistenziale.
Non è certo inutile, a questo punto, accennare alla questione della formazione artistica di Romagnolo. Il suo è il caso insolito di un artista autodidatta, che ha cominciato a dipingere, ma privatamente, dalla età di dodici anni, facendo invece studi regolari in ambito di graphic design e tenendosi costantemente aggiornato con scrupolo su quanto andava via via accadendo nel mondo dell’arte: la pittura è stata per lui l’esito di una prepotente esigenza interiore, la passione dell’intera esistenza.
Per quanto attiene al procedimento pittorico impiegato da Romagnolo, l’impressione diretta del vero, il dato emozionale, assumono per lui un rilievo fondamentale e non surrogabile. Subentra poi il medium, il filtro fotografico: la fotografia digitale offre al proposito degli strumenti preziosi per approfondire la cattura di una determinata inquadratura, di un particolare soggetto. Romagnolo sparpaglia sempre fedele al vero negli elementi essenziali della composizione, per poi semmai intervenire a semplificare i particolari accessori, meramente accidentali.
Romagnolo non si serve del disegno, inteso come esercizio grafico (beninteso, non ove si intenda il disegno nell’accezione traslata relativa all’ideazione complessiva e controllata della composizione: questa davvero ineliminabile nell’ambito dell’operazione pittorica). Spetta, dunque, al colore definire nelle tele di Romagnolo le presenze offerte dalla realtà fenomenica, con un risultato di vibrazione e di robusto sintetismo, che si addice particolarmente alle atmosfere preferite dall’artista piemontese. Terminal, Angolo del porto, Ciminiere al tramonto, Petroliera possono assurgere a valenza paradigmatica.
Il nostro artista, dunque, non impiega la matita per approntare schizzi ma affronta la tela con spatolate larghe e grumose, procedimento molto efficace anche quando serve a individuare, invece che delle masse cromatiche, delle linee che attraversano impavide il colore, come i correnti metallici dei tralicci dell’elettricità.
E' comunque, la sua, una pittura che interpreta grandi spazi e, coerentemente, predilige per le composizioni ampie superfici, in cui il gesto può dispiegarsi senza intralci.
Perentoria è la scelta di Romagnolo a favore del colore ad olio (certo non a caso eletto da secoli quale materiale per antonomasia della pittura), davvero insostituibile, grazie ad una ineguagliabile duttilità, che può trascorrere dalle trasparenze più lievi ad una matericità grumosa, capace di includere e fissare sulla tela – si è già accennato – perfino presenze oggettuali.
Pittura, solo pittura – come si vede – quella di Romagnolo; una scelta esplicita, ribadita dall’artista con fierezza, in un’età come l’attuale, in cui sono di moda contaminazioni di linguaggi e di tecniche, e in cui molti convertiti alle mode vorrebbero relegare la tradizionale espressione della pittura – il quadro – nel repertorio delle cose segnate dalle rughe di un irrimediabile invecchiamento. Ma, fortunatamente, la pittura dimostra una vitalità e una freschezza più forti dell’ostilità dei detrattori. Questa mostra, frutto di una creatività sorgiva, felicemente estranea ad ogni matrice accademica, ne offre una testimonianza eloquente.


Roma, maggio 2006



 
 

Romagnolo, pittore dei colori per contrasto
di Franca Maroni

Ascoli Piceno, 18 aprile 2007 - Carlo Romagnolo, è ospite in questi giorni della Galleria Verdesi di Ascoli. Romagnolo nato ad Asti, è un interessante pittore che all’amore per i contrasti di colore, unisce l’amore per la città. La città , infatti , come scenario quotidiano è il contesto privilegiato della pittura di questo originale artista che con segni veloci e forti tinte, affronta la realtà fisica per ascendere al metafisico. Le sue creazioni varie per dimensioni e per soggetti, raccontano aspetti concatenati della stessa realtà che è quanto di negletto e ignorato possa venirci incontro in un centro abitato.
Protagonisti dei quadri di Carlo Romagnolo, sono infatti bidoni , ferraglie, angoli fatiscenti, treni, cavi elettrici. Gli spazi che l’artista ama di più, sono quelli in cui si concentra il movimento dell’uomo: luoghi legati allo spostamento come stazioni, porti, autostrade. E tutto questo a sfatare l’idea che vi siano cose poetiche e non poetiche e a conferma che la poesia è in ogni cosa , in quanto ogni cosa , vista con gli occhi dell’animo, diventa poetica. Romagnolo, artista dall’animo profondamente sensibile e vibrante, sente nei crocevia, la vita che pulsa, il fluire dell’energia umama, tutto quanto di solito sfugge all’occhio distratto, tutto quanto si vive e percepisce in automatico. Le sue opere sono lampi di luce o paesaggi grigi ma il grigiore è riferito al giorno e la luce alla notte, per quel sentire le cose nel profondo, per quel sentire il buio come inconscio, più inquieto della vita stessa.
dal Resto del Carlino


Ascoli Piceno 20/04/2007


 
 

La Scena Italiana di Carlo Romagnolo

di Costanzo Costantini


Ciò che colpisce immediatamente della pittura di Carlo Romagnolo sono l’ampiezza della visione, la potenza delle immagini, la varietà delle prospettive, la bellezza dei colori, il possesso dello spazio: uno spazio sconfinato, dinamico, in esplosivo movimento, che comprende terra, cielo, mare, giorno e notte, luci e ombre, fulgori e tenebre. E’ come se risultasse da una serie di zoommate sulla realtà urbana e sociale italiana, in cui si ammirano paesaggi terrestri, marini, celesti; in cui si può leggere di tutto, scenografie, quinte teatrali, inquadrature cinematografiche, primi piani, sfondi, dissolvenze; in cui la pittura si apparenta strettamente alla scultura e all’architettura, connessione che è sempre esistita tra queste tre espressioni artistiche. Vite dei più eccellenti architetti, scultori e pittori, si intitolava il celebre libro del Vasari, Accademia delle arti liberali della Scultura, Pittura e Architettura, venne chiamata, in contrapposizione alle arti meccaniche, l’associazione creata dal Senato Veneto all’epoca del Tiepolo. Bramante era pittore e architetto, Leonardo e Raffaello pittori, scultori e architetti; sono pittori e scultori o scultori e pittori, e taluni  di essi anche architetti, come Bruno Gorgone e Ruggero De Calò, molti degli artisti contemporanei. Giorgio de Chirico e Lucio Fontana erano pittori e scultori, Giacometti e Marino Marini scultori e pittori, Manzù, Consagra, Mastroianni dipingevano. Guarienti dipinge e scolpisce. Ma lottano tutti con lo spazio, mirando a dominarlo, come dice Heidegger nell’Arte e lo spazio .   Scrive il filosofo tedesco: "Ma lo spazio – resta pur sempre lo stesso? Non è lo spazio che ha ricevuto la sua prima determinazione da Galilei e Newton? Lo spazio – quella estensione uniforme, di cui nessun luogo ha caratteristiche particolari, equivalente in ogni direzione e tuttavia non percepibile mediante i sensi? Lo spazio – che frattanto, in misura crescente, provoca l’uomo moderno, con ostinazione sempre maggiore, ad instaurarvi il suo totale dominio? L’arte figurativa moderna, in quanto si comprende come una lotta con lo spazio, non si è posta anch’essa al servizio di tale provocazione? Non trova in ciò la conferma della sua attualità?" Tra gli oggetti e le strutture industriali che affollano lo spazio dei dipinti di Carlo Romagnolo – grandi palazzi, ponti, binari, macchine, tir, tram, cantieri navali, bananiere, darsene, autostrade, piloni d’autostrada, magazzini, rimessaggi,etc.,- occupa un onore speciale il bidone: questo recipiente comune, nel quale ci imbattiamo in ogni luogo, in casa e fuori, si trasforma nei dipinti del pittore di Asti in un oggetto prezioso, in una sorta di simbolo estetico. Si direbbe che egli abbia fatto propria la filosofia di Michel Tournier, l’autore delle Meteore, il libro nel quale lo scrittore francese dichiara il suo amore alla pattumiera o, in termini esistenzialisti, alla deiezione.
  
           Tutto può essere trasformato in qualcosa di bello.
       La bellezza è un enigma.
     "Che cosa sia la bellezza io non so", diceva Durer nel152 5.
Con queste poche parole il maestro di Norimberga, al quale Raffaello inviava disegni in cambio di incisioni, metteva una mina sotto l’imponente edificio eretto alla bellezza nel nome di Platone, Plotino, Agostino, Luca Pacioli (l’autore del De Divina Proportione), fino al Winckelmann, edificio che da allora incominciava a vacillare finchè non crollava, cedendo il posto all’estetica del Brutto.
Può darsi che Carlo Romagnolo non miri all’ideale della Bellezza ma, se mai alla espressività creativa al massimo livello; tuttavia ciò non toglie che i suoi bidoni siano belli, come sono belli parecchi dei suoi paesaggi, quali Petroliera, I magazzini del cotone, Globetrotter, Ciminiere al tramonto, Passaggio di mercantili, Barconi blu, Terminal, Nuvole e gru, Notturno stradale, Palazzi di vetro…
In ogni caso, la "scena americana" di Edward  Hopper appare di una semplicità quasi metafisica rispetto alla "scena italiana" dell’artista piemontese.
Carlo Romagnolo ha frequentato il liceo scientifico e l’Istituto Europeo di Design a Milano, ma è autodidatta in pittura. Forse ha seguito l’esempio di Burri, il quale era convinto che le scuole non servissero a nulla.
Matisse diceva che la pittura è un destino.
Guido Reni, schiavo della "sozza passione" del gioco, si abbruttiva nelle bische ma poi dipingeva quadri adamantini;  il Parmigianino si ingolfava sui testi di alchimia (aveva voluto essere sepolto nudo convinto che sarebbe rinato) ma poi dipingeva la Madonna dal collo lungo, anticipando Modigliani (più destino di così?), Matisse aveva studiato da avvocato,  Levi, Burri, Guarienti da medici.
Ma il caso più stupefacente di intervento del destino è quello di Antonello da Messina.
Secondo documenti di archivio, quando aveva quindici anni Antonello aveva firmato ad Alcamo un contratto triennale di apprendista pellizzaro, dal notaio Ruggero Galanduccio,  presso il maestro conciatore di pelli Guglielmo Adragna. Ma oltre ad esser diventato un maestro dell’arte italiana, un pittore luminoso, aveva portato la pittura ad olio dalle Fiandre in Italia.
E’ possibile che il destino sia intervenuto anche nel caso di Carlo Romagnolo.
Nel catalogo della mostra allestitagli nel 2006 nella galleria d’Arte La Mimosa di Ascoli Piceno si legge: " Carlo Romagnolo predilige la tecnica ad olio perché solo questa permette di esagerare il gesto e la materia" . Senonchè  nella lettera che scrisse a Breton nel 1921 Giorgio de Chirico diceva che la tecnica ad olio aveva segnato la malattia mortale della pittura e che Durer, Holbein, Raffaello, Rubens e Tiziano non avevano mai dipinto ad olio ma a tempera. De Chirico troppo catastrofico, anche lui si convertirà all’olio, sia pure misto con altri elementi. Ma pure Mantegna dipingeva a tempera, donde quel colore opaco delle sue opere, compreso il Cristo morto. Altresì Masson amava l’opacità (la matitè), come l’amavano Burne-Jones e Balthus, i quali sostenevano che l’olio dava ai dipinti una brillantezza eccessiva.
E’ a dire comunque che Carlo Romagnolo rinnova, in modo del tutto personale, la celebre triade Materia-Colore-Gesto che ha dominato per oltre mezzo secolo l’orizzonte dell’arte informale, ancor prima che Michel Tapiè pubblicasse il libro-manifesto Un art autre e organizzasse la prima mostra in Europa di Jackson Pollock. L’autore della frase su riferita avrebbe dovuto citare anche il colore, oltre il gesto e la materia. Non facile dire quale dei tre elementi prevalga in Romagnolo. Il gesto è sicuro e perentorio, la materia ( la cartesiana rex extensa  che Anis Kapoor trasforma in spazio) ricca e corposa, il colore pieno di fascino, specialmente il blu nelle sue gradazioni, anche se non raggiunge il blu della Moschea Blu di Istanbul, che conta ben centoventi gradazioni.


 
 

di Giuseppe Trincucci

Il cammino artistico di Carlo Romagnolo pare sia iniziato anni addietro, quando armato di tavolozza e di pennello ricostruiva sulla tela i suoi desideri. Li costruiva girando per le strade delle città piemontesi o visitando altri luoghi lungo le coste e i porti della vicina Liguria. Ebbene  questi desideri si trasformarono presto, con un fresco linguaggio pittorico, nella rappresentazione di case, di vie, di paesaggi di grandi confini o di semplici dettagli di luoghi, convissuti dall’artista nelle sue peregrinazioni. Romagnolo inizia questo lungo cammino di artista in un contesto che in definitiva lo avvince e lo affascina, facendo leva sui suoi sentimenti, che si riconoscono in un fine estetico, in emozioni che segnalano un cuore e un sentire antico.
A chi piace fare analogie tra le diverse arti potrebbe venire in mente una bella poesia di Alda Merini, la più classica delle poetesse italiane del Novecento, una scrittrice che seppe vivere le ansie e le angosce del suo tempo con una lucida modernità. E volentieri andrà a rileggere una poesia di Merini dedicata alla Terra Santa:

Le più belle poesie/ si scrivono sopra le pietre/ coi ginocchi piagati/ e le menti aguzzate dal mistero.

In altri termini la poetessa mette in relazione la sua poesia e in generale l’opera d’arte con il dolore e con la melanconia attraverso una ricerca culturale, soprattutto emotiva, attiva, attenta, aguzzata da un quantum di ignoto e di lontano.
La stessa sensazione ci fa rivivere Carlo Romagnolo nelle sue opere e ce la fa rivivere con una nota di malinconica vena poetica con la quale e per la quale rivive i momenti più intensi della sua ricerca artistica. Il suo sguardo vede spazi urbani occupati da case e da chiese e da vie, siano esse ferrate o di terra battuta; riscopre centri cittadini, vede porti e angiporti, ammira silenziosamente navi attraccate al molo o semplici facciate levigate dal sole, vede tutte quelle strane architetture che l’uomo si costruisce nel corso del tempo.
E questi paesaggi sono anche popolati da simboli spesso inutili e dismessi della cosiddetta civiltà urbana: bidoni vuoti, sagome di macchine e di utilitarie colte nella loro spesso inutile corsa, grumi di nafta e di oli persi dai veicoli o di navi ferme all’attracco. Ma quello che più meraviglia è che, nel presentare ed esprimere la sua arte, ricerchi e poi trovi un completo equilibrio tra luce e buio: e in questo equilibrio facilmente e felicemente ottenuto ci offre opere di seducente perfezione.
I suoi quadri –è vero- devono essere osservati e ammirati a lungo. Anche il più remoto indizio, il meno visibile segno ha un suo significato e una sua valenza, conserva una sorpresa, dà in definitiva valore all’intero quadro. Certe inquadrature rendono ancora più efficace il rapporto tra questa dipintura, di un luogo e dei suoi "oggetti" rappresentati quasi a suggello di un attimo fuggente, di un tempo senza rabbia, e la prevalenza ancora e sempre della luce, quella luce che con prepotenza affascina questo artista. Dalla luce Romagnolo sembra trarre spunto per la sua poesia.
E ancora troverai nei suoi quadri malinconia e rimpianto, velati dai riflessi non sempre splendenti di una civiltà che lentamente svanisce nel nulla, che si trasforma in altre realtà e in altre situazioni non altrettanto felici. Romagnolo quasi avverte il peso di una civiltà al tramonto, di una selvaggia urbanizzazione che toglie valenza e significato al passato recente di ciascuno di noi.
Nelle sue opere si avverte il passaggio, rapido involontario, tra occhi e cuore, quando riesce a far rivivere emozioni e sentimenti con un linguaggio pittorico che nulla cede alla oleografia o alla memoria stantia fotografica e calligrafica. E’ difficile mettere  sulla stessa linea di mira mente e cuore, è difficile cedere a una delle due tentazioni: a quella culturale, figlia della meditazione, frutto di studio e di ricerca, e quella sentimentale, dettata dalle voglie del cuore e che valuta solo sentimenti ed emozioni. Romagnolo riesce in questo intento, offrendoci un mondo fatto di sentimenti semplici e autentici, di passioni lievi, di valori che si concretizzano nel quotidiano con una testimonianza semplice ed elementare.
Le opere di Romagnolo sono quindi frutto di una ricerca attenta e rigorosa che si affonda e si confronta con il dolore.
Questa ricerca fa d’altro canto nascere, dopo una scelta non casuale, tutti i migliori squarci di paesaggio, quelli più significativi e più pregnanti.
E se di ogni artista si cerca la riconoscibilità essa va inserita in due linee fondamentali: la sua originalità e l’ascrizione a una corrente artistica, a una storia di ricerca e di attenzione tutta personale. Ebbene la lezione che Romagnolo ha appreso e fatta sua è quella dei grandi maestri dell’impressionismo europeo che appartengono alla cultura pittorica universale. Ma di certo Romagnolo raggiunge una sua originalità che rende il suo lavoro riconoscibile per la sua singolarità.
L’uso dei colori, l’uso sapiente e misurato della spatola, le scelte cromatiche, la scelta della tecnica ad olio, tecnica antica e apprezzabile, fanno di questo artista un bravo interprete della migliore tradizione del realismo italiano. I suoi colori sanno vincere il silenzio, si animano di venti e di rumori, di chiasso e di chiacchiericcio, di canti  di marinai e di musiche che vengono dal fondo delle vie, dalle auto in corsa che si rincorrono sparendo nel nulla.
Ma se un ascendente dovremo per forza trovare per la sua arte, pensiamo a un illustre grandissimo precursore degli effetti luministici, Joseph Mallord William Turner, che proprio nel secondo decennio del diciannovesimo secolo, tra il 1816 e il 1820, visitò le nostre terre e ne trasse opere che appartengono alla storia della pittura europea. Orbene nelle opere di Romagnolo troverete tracce antiche della grande e vissuta "turbolenza e inquietudine" di quell’artista, che piacque a tutti i grandi del suo tempo.
Ma questa lezione artistica nulla toglie all’originalità del contributo offerto dalle sue opere, ben ravvisabile nella spontaneità dell’ ispirazione e nella rivisitazione moderna, attuale e immediata.
Luce e tempo sono quindi i temi dominanti dei quadri di Carlo Romagnolo cercati e offerti in una metafora di segni e di linee, e che esprimono senza mezzi termini e con efficacia, per usare le parole di Shelley, l’anima delle cose.


 
 

CI SONO “CERTE NOTTI” IN CUI UN ARTISTA RIESCE A REGALARCI SUGGESTIONI DI VELOCITA'

di Rosita Spinozzi (da “il Resto del Carlino” ,  Ascoli 8 dicembre 2010)

Forti suggestioni cromatiche immerse in un paesaggio contemporaneo dal taglio dinamico e poetico, ma rigorosamente notturno, permeato da città, navi, porti, stazioni, nebbie industriali, binari in fuga, strade solitarie che trasmettono la velocità con cui si consuma la notte. E' questo il microcosmo racchiuso nelle splendide opere pittoriche di Carlo Romagnolo, uno dei più interessanti interpreti del realismo italiano nonché protagonista di “Certe notti”,  personale composta da una trentina di quadri che verrà inaugurata oggi alle ore 17 presso la Galleria Verdesi di San Benedetto del Tronto, dove resterà in esposizione fino al 6 gennaio 2011. Temi legati al vissuto metropolitano in cui la città è avvolta dalle luci soffuse della notte, luci quasi psichedeliche che creano bagliori verdi e rossastri sul selciato, lasciando intravedere marciapiedi deserti, mentre i fari di un'auto in fondo alla via accendono una luce di speranza in mezzo a tanta solitudine. Perchè nelle opere di Romagnolo, assai riconoscibili per la loro singolarità, c'è una quasi totale assenza di persone. E quelle poche che appaiono sono anonime, al punto tale da sembrare fantasmi notturni che cercano disperatamente di comunicare.
C'è malinconia nelle notti di Romagnolo, c'è il “racconto” di persone che lavorano, vagano e non si incontrano, persone che sembrano manichini e fanno uso del cellulare per dialogare perchè oggi la comunicazione è sempre più filtrata dalla tecnologia.
“Nelle mie città vuote, “certe notti” puoi vedere l'aura di un'auto che si smaterializza sul selciato, sentire il folle ticchettio di chi digita cose inutili a persone che non ci sono. E il cielo vibra di energia che fende l'aria come il fulmine, rimbalza da un palazzo all'altro, corre sui fili dei tram, accendendo tutto di colori più intensi, di una luce più vivida, come una lampadina che sta per esplodere” spiega Carlo Romagnolo che, per dare maggiore impulso ai suoi quadri, fa un uso sapiente e misurato di spatola e pennello, dimostrando di essere un maestro in questa tecnica che, senza dubbio, conferisce all'opera una dimensione impressionista e quasi fotografica. “La velocità del tratto è fondamentale in quanto riproduce fedelmente i ritmi rapidi della notte, dando l'esatta cognizione di quanto sta accadendo”. Ed è proprio questo uno dei leit motiv più ricorrenti dell'artista astigiano che, attraverso la sua sensibilità umana ed artistica, riesce in un'impresa non di certo facile: comunicare l'incomunicabilità che agita le persone, dando vita ad un affascinante e solitario affresco notturno dei nostri tempi. Perchè sono i suoi colori a vincere il silenzio, a farci percepire i suoni metropolitani, a parlarci attraverso metafore che svelano “l'anima delle cose”, illuminando quel velo di malinconia e rimpianto che si trasforma così in vita.

 
 
Torna ai contenuti | Torna al menu